Ho accettato la visita ad Aushwitz e
Birkenau in occasione del viaggio di istruzione di marzo 2015, consapevole del
fatto che sarebbe stata un'emozione molto forte, e dopo tutto quello che ho
potuto vedere con i miei occhi, l'unica cosa che mi viene da pensare è che il
mondo non può che piangere e soffrire ancora per la perdita di così tante donne,
di così tanti bambini e di così tanti uomini, sradicati dalle loro famiglie,
dai loro amori e dalle loro crescite.
Mentre camminavo lungo i viali che
intervallavano quelle che un tempo erano le fabbriche di morte, putride di
uomini ridotti a stuzzicadenti, mi è tornato in mente un passo da “I fratelli
Karamazov” di Dostoevskij che esprimeva a pieno un pensiero che in quel momento
mi stava tormentando:
“Si sente infatti parlare a volte di
crudeltà "belluina" dell'uomo, ma è profondamente ingiusto e
offensivo per le belve: una belva non potrebbe mai essere crudele quanto un
uomo, così artisticamente e raffinatamente crudele. Una tigre morde, sbrana e
non sa fare nient'altro. Non le verrebbe mai in mente di inchiodare gli uomini
per gli orecchi per tutta una notte, neppure se fosse in grado di farlo”
L'uomo più riceve e più ripudia quanto
ha ricevuto. Egli ricevette il dono della mente, quella mente tanto elogiata da
filosofi e scienziati e che avrebbe dovuto rappresentare il nostro essere,
superiore a quello animale. Ma ciò è tremendamente falso: gli animali restano
sempre fedeli al proprio essere e l'uomo mai. E' un vizio che abbiamo sempre
posseduto e che continuiamo a possedere; è quel vizio che non ci fa rendere
conto di ciò che abbiamo già e che ci fa desiderare sempre di più, che ci fa
sentire padroni incondizionati del mondo. Lo si riscontra sempre anche nei
nostri piccoli gesti quotidiani, è lo stesso vizio che ci fa buttare una cicca
per terra piuttosto che in un cestino. L'uomo pensa solo ad avere ancora di più
perché tutto deve essere suo; anzi, non pensa, agisce e basta, e annienta il pensare
rinvigorendo il proprio egoismo.
Il piano di conquista del potere su
tutto è lo spirito che contraddistingue le politiche totalitariste, come quella
nazista; e Aushwitz e Birkenau si sono presentate ai miei occhi come faccia
crudele dell'arte di questo potere. L'arte asettica del cattivo e “utile” fine.
Trovandomi a guardare quei caseggiati dai mattoni rossi, e provando a
immaginarli senza alcuna recinzione spinata, l'insieme delle costruzioni
sarebbe quasi quasi potuta sembrarmi la schiera di villette che formano il
camping dove passo una settimana d'estate.
Che fantastica presa in giro. Prima
di entrare leggo "Arbeit macht frei",
il lavoro rende liberi. Scritta che oggi sintetizza in modo beffardo
le menzogne dei campi di concentramento nei quali i lavori forzati, la
condizione disumana di privazione dei prigionieri e il destino finale di morte,
contrastavano con il significato opposto del motto stesso.
Menzogne ovunque. Oltrepasso la
soglia e mi ritrovo dentro, e a quel punto quello che riesco a fare è abbassare
la testa e far scendere una lacrima.
L'uomo non solo si è reso responsabile
dello sterminio ma ha agito nel modo di renderlo ancora più cruento per le
vittime e meno problematico per sé stesso, ha agito come un automa distaccato
il più possibile da ogni tipo di coinvolgimento emotivo umano.
Il 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa liberava Auschwitz. Nel campo principale,
1200 prigionieri erano in tali condizioni di salute da non potersi unire ai
60.000 inviati verso occidente con le “marce della morte”; a Birkenau restavano
5.800 internati e nelle baracche inspiegabilmente non distrutte dai nazisti vennero
ritrovati, secondo i documenti, 5525 paia di scarpe da donna, 3800 paia di
scarpe da uomo, 348.820 abiti da uomo, 836.255 abiti da donna, 13.964 tappeti,
69.848 piatti, montagne di spazzolini da denti, pennelli da barba, occhiali,
stampelle e sette tonnellate di capelli umani. Ad Auschwitz furono imprigionati
e ammazzati ebrei da ogni parte d’Europa e sul numero di uccisioni rimane
tuttora il mistero, perché durante il processo di Norimberga fu ripetutamente
chiesto a Höss, il comandante di Auschwitz dal 1941 al dicembre 1943, il numero
dei prigionieri assassinati e lui non fece altro che ripetere la cifra indicata
da Eichmann, che stimava in due milioni e mezzo gli ebrei sterminati, ai quali
andava aggiunto però un altro mezzo milione morto per malattia o sfinimento per
lavoro. Ad Auschwitz inoltre stava una banda di criminali in camice bianco agli
ordini del famigerato dottor Mengele, il più sadico e infame medico criminale
al quale non mancava certo in questo lager il materiale per i suoi ignobili
esperimenti.
Ad Auschwitz le tecniche di sterminio
avevano raggiunto il massimo dell'avanguardia. Bastava un barattolo di Zyklon B
inserito attraverso una presa d'aria posta sul tetto delle camere a gas da
parte dei nazisti o dagli ebrei resi complici, “la zona grigia”, bastava che si
chiudesse la presa d'aria e il gas che veniva fuori per via del contatto con l'aria
calda cominciasse a fare il suo effetto: millecinquecento persone morivano
contemporaneamente in trenta minuti, tutto così facile.
Ho visto i pigiami a righe che i
prigionieri del campo erano costretti a indossare e ho provato soltanto a
immaginare cosa potesse significare essere vestiti con pezze del genere, mentre
io a marzo, con il sole e tre strati di lana addosso e un giubbotto, sentivo
ancora freddo e avevo le mani congelate. E' stato forte e triste vedere un
ammasso, alto almeno quattro metri, di scarpe, quelle che i prigionieri
dovevano rimuoversi per indossare zoccoli di legno. Non è stato facile vedere i
resti di vita di persone come noi, vedere le cose più intime che neanche chi le
possedeva aveva avuto modo di rivedere. Non è stato facile vedere le loro
valigie tutte scritte e numerate perché, come veniva loro simpaticamente
raccomandato, avrebbero dovuto ricordarsi la posizione in cui lasciavano il
bagaglio per il fatto che al ritorno lo avrebbero dovuto riprendere. Quei
bagagli venivano invece sottratti e direttamente portati nelle macchine
disinfettatrici. C'erano protesi, c'erano montature di occhiali... ma la cosa
per me più difficile da riuscire a vedere in quella zona sono stati i capelli,
un ammasso altissimo di capelli umani destinati a diventare coperte e tappeti,
giusto per risparmiare un po'. Ho visto il "blocco della morte", nei
cui sotterranei erano presenti delle cellette dalla dimensione non più grande
di quella di uno stretto ascensore, cellette alte e circondate da mattoni, dalle
quali si accedeva gattonando da una finestrella posta in basso, dove si stava
in parecchi e lo spazio non bastava nemmeno per sedersi, dove l'unica presa
d'aria, una sporgenza in ferro bucherellata che dava sul cortile accanto, quasi
sempre era ricoperta dalla neve. Nello stesso cortile c'era un muro in cui
venivano fucilati i prigionieri, fatto con un materiale particolare che serviva
ad attutire i rimbalzi delle pallottole. A Birkenau ho visto uno dei dormitori
rimasti, quelli sui quali dovevano dormire erano dei piccoli quadrati di legno
posti uno sopra all'altro "a castello" e sui quali i prigionieri
venivano ammassati anche in setto, otto. Nella stessa baracca ho letto le
scritte dei prigionieri incise sui mattoni con date risalenti al '42. Ho visto
le sale nelle quali tagliavano i capelli o cercavano i denti d'oro ai
prigionieri, tutte precedute da insegne come "Il barbiere" o
"Il dentista". Ancora menzogne, ancora rabbia. Ho visto tantissime
cose e ho letto tantissime scritte, ho visitato i moderni musei davvero
emozionanti che si trovano all'interno di alcuni edifici, fatti di proiezioni
nel buio, di suoni e di riproduzioni. Ho girato moltissimo e ho camminato per
attraversare i 175 ettari su cui si distende il campo di Birkenau, all'andata e
al ritorno. Una camminata durante la quale ho visto solo male intorno a me,
durante la quale sono stato preso da tante emozioni, mentre il freddo mi
congelava le mani.
Tanto tempo fa nella lingua latina la parola campo nasceva per dare un nome
alla verde campagna. Poi un giorno arrivò la guerra, che invase tutto e invase
anche le parole, così il campo diventò un posto dove combattere, un campo di
battaglia; e così anche le praterie iniziarono a macchiarsi di sangue.
Io penso che tutti, avendo avuto
assegnato un titolo simile su cui scrivere, avrebbero piuttosto preferito
parlare della propria vita, dei propri studi, del proprio lavoro, perché quasi
sempre il nostro campo è quello che ci fa amare la vita di tutti i giorni, e
per questo è giusto rendergli omaggio.
Noi stessi siamo il nostro campo: siamo campi pieni di sogni, di aspirazioni,
di obiettivi, di conquiste, di emozioni che ci fanno arrabbiare, piangere,
sorridere. E' il campo della vita, è il campo della libertà.
Ci pensiamo a quanta infinita roba porta
con sé un campo del genere? Come si può allora volere così tanto male a noi
stessi e al nostro campo? Come si può allora avere il coraggio di ricoprire di
pietre questo dono che la vita ci ha fatto? A cosa serve annientare la nostra
Persona se non ad autodistruggerci? E non solo, perché auto-distruggendo noi
stessi distruggiamo anche gli altri. Come può un campo, che nasce come quello
degli altri, avere avuto il coraggio di sterminare circa undici milioni di
altri campi, della stessa identica natura, con le modalità più sofisticate e
atroci. Come mai si è dato spazio a ciò e perché questo è stato concesso? L'essere
umano ha costruito questo complesso e lo ha calcolato nei minimi particolari,
nelle minime rifiniture, lo ha “abbellito” perfino da insegne ingannatrici
dipinte sul muro o battute col ferro. Perché? Mi sono ritrovato a comprendere
quanta assurdità c'era stata nelle azioni umane, avendo visto con i miei occhi
quanto nessun racconto avrebbe potuto farmi immaginare così. Tutto per uno
stupido attacco alla diversità, che mi ha fortemente reso nervoso. Andare
contro ogni differenza, ad ogni costo; avere la premura di essere presto tutti
uguali per me è stata la prova che il diavolo esiste davvero. Ho preso
coscienza del potere di un semplice simbolo: i prigionieri venivano bollati a
seconda della categoria cui appartenevano tra prigionieri politici, rom,
omosessuali, criminali, anti socialisti, testimoni di Geova... Ho preso
coscienza di quanto sia dannosa un'etichetta e di quanto sia importante invece
possedere un nome. Dopo essermi reso conto che persone lì dentro erano
morte senza una reale valida motivazione e che tutto ciò che avevo di fronte
era stato realizzato da persone della mia stessa razza umana, proprio allora ho
sentito su di me un grosso senso di colpa che mi ha pietrificato. Mi sono
subito reso conto della fortuna che ho nell'essere una persona rispettosa. Mi
sono reso conto di cosa significhi essere liberi e di cosa significhi invece
non avere nessuna libertà e nessuna via di scampo. Mi sono reso conto di quanto
sia importante che io rivendichi la mia libertà ogni giorno.
Noi, a differenza di tutti coloro che muoiono per la
guerra e in particolare perché vittime della “stupidità del male”, abbiamo la
libertà di essere individui pensanti, e questo dovremmo ricordarcelo ogni
giorno, per non dimenticare quanto l'umanità ha dovuto subire e per far sì che
nessuno, mai, si permetti di mancarci di rispetto o di volere il nostro male.