mercoledì 19 agosto 2015 0 commenti

Riflessioni

Esistono persone che girano in tasca con le loro verità che considerano inopinabili. Quelli che credono di essere i detentori della verità assoluta. Quelli che credono di sapere tutto su ogni argomento. Quelli che ponendosi su di un piedistallo hanno la presunzione di indicarti quale sia la strada giusta da seguire pur rimanendo fermi. Sono quelle persone che non chinano mai umilmente il capo lasciando che qualcuno insegni loro qualcosa di diverso. Sono quelle persone che non alzano mai la mano per chiedere, perchè loro non chiedono mai, già conoscono tutto. Sono le stesse persone che camminano con le loro verità custodite sapientemente nelle tasche perchè nessuno possa strappargliele ed aggiungervi qualcosa di innovativo, qualcosa che fino ad allora non avevano ancora scoperto.
Sono quelle persone che credono di sapere tutto, invece non sanno proprio niente. 
Le loro verità sono come bolle di sapone, perchè se qualcuno riuscisse a togliergliele dalle tasche, queste verrebbero spazzate via con una semplice folata di vento, scoppiando una dopo l'altra. Per questo le custodiscono gelosamente.
Sono quelle persone che camminano a testa alta, sicuri di sè e delle proprie sterili verità. Verità che sanno di poco eppure le mostrano con profonda convinzione. Sono quelle persone che credono di sapere ma non sanno nulla, credono di esser capaci ma in realtà non lo sono. Mostrano capacità che in realtà non posseggono, eppure se ne convincono al punto tale da convincere anche chi gli sta attorno. 
venerdì 10 aprile 2015 0 commenti

Il mio campo

Ho accettato la visita ad Aushwitz e Birkenau in occasione del viaggio di istruzione di marzo 2015, consapevole del fatto che sarebbe stata un'emozione molto forte, e dopo tutto quello che ho potuto vedere con i miei occhi, l'unica cosa che mi viene da pensare è che il mondo non può che piangere e soffrire ancora per la perdita di così tante donne, di così tanti bambini e di così tanti uomini, sradicati dalle loro famiglie, dai loro amori e dalle loro crescite.
Mentre camminavo lungo i viali che intervallavano quelle che un tempo erano le fabbriche di morte, putride di uomini ridotti a stuzzicadenti, mi è tornato in mente un passo da “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij che esprimeva a pieno un pensiero che in quel momento mi stava tormentando:                 

“Si sente infatti parlare a volte di crudeltà "belluina" dell'uomo, ma è profondamente ingiusto e offensivo per le belve: una belva non potrebbe mai essere crudele quanto un uomo, così artisticamente e raffinatamente crudele. Una tigre morde, sbrana e non sa fare nient'altro. Non le verrebbe mai in mente di inchiodare gli uomini per gli orecchi per tutta una notte, neppure se fosse in grado di farlo”

L'uomo più riceve e più ripudia quanto ha ricevuto. Egli ricevette il dono della mente, quella mente tanto elogiata da filosofi e scienziati e che avrebbe dovuto rappresentare il nostro essere, superiore a quello animale. Ma ciò è tremendamente falso: gli animali restano sempre fedeli al proprio essere e l'uomo mai. E' un vizio che abbiamo sempre posseduto e che continuiamo a possedere; è quel vizio che non ci fa rendere conto di ciò che abbiamo già e che ci fa desiderare sempre di più, che ci fa sentire padroni incondizionati del mondo. Lo si riscontra sempre anche nei nostri piccoli gesti quotidiani, è lo stesso vizio che ci fa buttare una cicca per terra piuttosto che in un cestino. L'uomo pensa solo ad avere ancora di più perché tutto deve essere suo; anzi, non pensa, agisce e basta, e annienta il pensare rinvigorendo il proprio egoismo.
Il piano di conquista del potere su tutto è lo spirito che contraddistingue le politiche totalitariste, come quella nazista; e Aushwitz e Birkenau si sono presentate ai miei occhi come faccia crudele dell'arte di questo potere. L'arte asettica del cattivo e “utile” fine. Trovandomi a guardare quei caseggiati dai mattoni rossi, e provando a immaginarli senza alcuna recinzione spinata, l'insieme delle costruzioni sarebbe quasi quasi potuta sembrarmi la schiera di villette che formano il camping dove passo una settimana d'estate.
Che fantastica presa in giro. Prima di entrare leggo "Arbeit macht frei", il lavoro rende liberi. Scritta che oggi sintetizza in modo beffardo le menzogne dei campi di concentramento nei quali i lavori forzati, la condizione disumana di privazione dei prigionieri e il destino finale di morte, contrastavano con il significato opposto del motto stesso. 
Menzogne ovunque. Oltrepasso la soglia e mi ritrovo dentro, e a quel punto quello che riesco a fare è abbassare la testa e far scendere una lacrima. 
L'uomo non solo si è reso responsabile dello sterminio ma ha agito nel modo di renderlo ancora più cruento per le vittime e meno problematico per sé stesso, ha agito come un automa distaccato il più possibile da ogni tipo di coinvolgimento emotivo umano.
Il 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa liberava Auschwitz. Nel campo principale, 1200 prigionieri erano in tali condizioni di salute da non potersi unire ai 60.000 inviati verso occidente con le “marce della morte”; a Birkenau restavano 5.800 internati e nelle baracche inspiegabilmente non distrutte dai nazisti vennero ritrovati, secondo i documenti, 5525 paia di scarpe da donna, 3800 paia di scarpe da uomo, 348.820 abiti da uomo, 836.255 abiti da donna, 13.964 tappeti, 69.848 piatti, montagne di spazzolini da denti, pennelli da barba, occhiali, stampelle e sette tonnellate di capelli umani. Ad Auschwitz furono imprigionati e ammazzati ebrei da ogni parte d’Europa e sul numero di uccisioni rimane tuttora il mistero, perché durante il processo di Norimberga fu ripetutamente chiesto a Höss, il comandante di Auschwitz dal 1941 al dicembre 1943, il numero dei prigionieri assassinati e lui non fece altro che ripetere la cifra indicata da Eichmann, che stimava in due milioni e mezzo gli ebrei sterminati, ai quali andava aggiunto però un altro mezzo milione morto per malattia o sfinimento per lavoro. Ad Auschwitz inoltre stava una banda di criminali in camice bianco agli ordini del famigerato dottor Mengele, il più sadico e infame medico criminale al quale non mancava certo in questo lager il materiale per i suoi ignobili esperimenti.
Ad Auschwitz le tecniche di sterminio avevano raggiunto il massimo dell'avanguardia. Bastava un barattolo di Zyklon B inserito attraverso una presa d'aria posta sul tetto delle camere a gas da parte dei nazisti o dagli ebrei resi complici, “la zona grigia”, bastava che si chiudesse la presa d'aria e il gas che veniva fuori per via del contatto con l'aria calda cominciasse a fare il suo effetto: millecinquecento persone morivano contemporaneamente in trenta minuti, tutto così facile.
Ho visto i pigiami a righe che i prigionieri del campo erano costretti a indossare e ho provato soltanto a immaginare cosa potesse significare essere vestiti con pezze del genere, mentre io a marzo, con il sole e tre strati di lana addosso e un giubbotto, sentivo ancora freddo e avevo le mani congelate. E' stato forte e triste vedere un ammasso, alto almeno quattro metri, di scarpe, quelle che i prigionieri dovevano rimuoversi per indossare zoccoli di legno. Non è stato facile vedere i resti di vita di persone come noi, vedere le cose più intime che neanche chi le possedeva aveva avuto modo di rivedere. Non è stato facile vedere le loro valigie tutte scritte e numerate perché, come veniva loro simpaticamente raccomandato, avrebbero dovuto ricordarsi la posizione in cui lasciavano il bagaglio per il fatto che al ritorno lo avrebbero dovuto riprendere. Quei bagagli venivano invece sottratti e direttamente portati nelle macchine disinfettatrici. C'erano protesi, c'erano montature di occhiali... ma la cosa per me più difficile da riuscire a vedere in quella zona sono stati i capelli, un ammasso altissimo di capelli umani destinati a diventare coperte e tappeti, giusto per risparmiare un po'. Ho visto il "blocco della morte", nei cui sotterranei erano presenti delle cellette dalla dimensione non più grande di quella di uno stretto ascensore, cellette alte e circondate da mattoni, dalle quali si accedeva gattonando da una finestrella posta in basso, dove si stava in parecchi e lo spazio non bastava nemmeno per sedersi, dove l'unica presa d'aria, una sporgenza in ferro bucherellata che dava sul cortile accanto, quasi sempre era ricoperta dalla neve. Nello stesso cortile c'era un muro in cui venivano fucilati i prigionieri, fatto con un materiale particolare che serviva ad attutire i rimbalzi delle pallottole. A Birkenau ho visto uno dei dormitori rimasti, quelli sui quali dovevano dormire erano dei piccoli quadrati di legno posti uno sopra all'altro "a castello" e sui quali i prigionieri venivano ammassati anche in setto, otto. Nella stessa baracca ho letto le scritte dei prigionieri incise sui mattoni con date risalenti al '42. Ho visto le sale nelle quali tagliavano i capelli o cercavano i denti d'oro ai prigionieri, tutte precedute da insegne come "Il barbiere" o "Il dentista". Ancora menzogne, ancora rabbia. Ho visto tantissime cose e ho letto tantissime scritte, ho visitato i moderni musei davvero emozionanti che si trovano all'interno di alcuni edifici, fatti di proiezioni nel buio, di suoni e di riproduzioni. Ho girato moltissimo e ho camminato per attraversare i 175 ettari su cui si distende il campo di Birkenau, all'andata e al ritorno. Una camminata durante la quale ho visto solo male intorno a me, durante la quale sono stato preso da tante emozioni, mentre il freddo mi congelava le mani.   
Tanto tempo fa nella lingua latina la parola campo nasceva per dare un nome alla verde campagna. Poi un giorno arrivò la guerra, che invase tutto e invase anche le parole, così il campo diventò un posto dove combattere, un campo di battaglia; e così anche le praterie iniziarono a macchiarsi di sangue.
Io penso che tutti, avendo avuto assegnato un titolo simile su cui scrivere, avrebbero piuttosto preferito parlare della propria vita, dei propri studi, del proprio lavoro, perché quasi sempre il nostro campo è quello che ci fa amare la vita di tutti i giorni, e per questo è giusto rendergli omaggio.      
Noi stessi siamo il nostro campo: siamo campi pieni di sogni, di aspirazioni, di obiettivi, di conquiste, di emozioni che ci fanno arrabbiare, piangere, sorridere. E' il campo della vita, è il campo della libertà.
Ci pensiamo a quanta infinita roba porta con sé un campo del genere? Come si può allora volere così tanto male a noi stessi e al nostro campo? Come si può allora avere il coraggio di ricoprire di pietre questo dono che la vita ci ha fatto? A cosa serve annientare la nostra Persona se non ad autodistruggerci? E non solo, perché auto-distruggendo noi stessi distruggiamo anche gli altri. Come può un campo, che nasce come quello degli altri, avere avuto il coraggio di sterminare circa undici milioni di altri campi, della stessa identica natura, con le modalità più sofisticate e atroci. Come mai si è dato spazio a ciò e perché questo è stato concesso? L'essere umano ha costruito questo complesso e lo ha calcolato nei minimi particolari, nelle minime rifiniture, lo ha “abbellito” perfino da insegne ingannatrici dipinte sul muro o battute col ferro. Perché? Mi sono ritrovato a comprendere quanta assurdità c'era stata nelle azioni umane, avendo visto con i miei occhi quanto nessun racconto avrebbe potuto farmi immaginare così. Tutto per uno stupido attacco alla diversità, che mi ha fortemente reso nervoso. Andare contro ogni differenza, ad ogni costo; avere la premura di essere presto tutti uguali per me è stata la prova che il diavolo esiste davvero. Ho preso coscienza del potere di un semplice simbolo: i prigionieri venivano bollati a seconda della categoria cui appartenevano tra prigionieri politici, rom, omosessuali, criminali, anti socialisti, testimoni di Geova... Ho preso coscienza di quanto sia dannosa un'etichetta e di quanto sia importante invece possedere un nome. Dopo essermi reso conto che persone lì dentro erano morte senza una reale valida motivazione e che tutto ciò che avevo di fronte era stato realizzato da persone della mia stessa razza umana, proprio allora ho sentito su di me un grosso senso di colpa che mi ha pietrificato. Mi sono subito reso conto della fortuna che ho nell'essere una persona rispettosa. Mi sono reso conto di cosa significhi essere liberi e di cosa significhi invece non avere nessuna libertà e nessuna via di scampo. Mi sono reso conto di quanto sia importante che io rivendichi la mia libertà ogni giorno.
Noi, a differenza di tutti coloro che muoiono per la guerra e in particolare perché vittime della “stupidità del male”, abbiamo la libertà di essere individui pensanti, e questo dovremmo ricordarcelo ogni giorno, per non dimenticare quanto l'umanità ha dovuto subire e per far sì che nessuno, mai, si permetti di mancarci di rispetto o di volere il nostro male. 
                                                                                                                           Ruggero Pane
                                                                                                   




giovedì 16 ottobre 2014 0 commenti

Nel mezzo del cammin di vostra vita, voi, ammalati, dovete vergognarvi!

Andrej Tarkovskij nasce nel 1932 in Russia, a Zavroze, e fin da bambino eredita dal padre Arsenij quel senso poetico che influenzerà la sua vita di regista cinematografico e le sue altre occupazioni artistiche e letterarie. Il padre era solito scrivere lettere e poesie al figlio che vedeva poco, specialmente durante l’arruolamento nell’esercito russo; così che lui, curioso delle avventure militari del padre e desideroso di una sua reale presenza, imparava a memoria ogni lettera portando il suo ricordo sempre con se. La madre, al contrario, fu sempre presente nella sua vita. Nella sua educazione Andrej vanta un'incredibile preparazione in campo artistico che spazia anche alla pittura frequentando numerosi corsi. Grazie a queste esperienze si avvicina verso la cultura russa, piena di capolavori e di contraddizioni. Nel 1952, inizia a lavorare per tre anni come geologo raccoglitore nella taiga siberiana e così comincia la sua attenzione ossessiva alla natura che da sempre contraddistingue le immagini di Tarkovskij. Al ritorno si iscrive all’Istituto Statale di Cinematografia a Mosca e da quì inizia la sua lunga produzione di capolavori cinematografici. 

Nel 1966 quando il registra gira “Andrej Rublev”, apre ufficialmente un'ostilità con il regime sovietico che influenzerà tutta la sua futura carriera. Il film è una parabola sul senso dell'arte che vince sulla politica sanguinaria degli uomini. Non piacque alle autorità sovietiche che, vedendo in quella Russia descritta dal film una metafora di quella contemporanea, ne ritardarono l'uscita per 6 anni. 

Negli anni di Tarkoskvij in Russia si assiste ad un movimento artistico e culturale, quello del realismo-socialista: in primo luogo veniva osteggiata qualsiasi forma di individualismo, e il singolo non doveva mai essere esaltato a discapito della massa; al contrario, i personaggi che tendevano a mostrare un eccesso di ego dovevano apparire come dei perdenti o quanto meno vivere esperienze che li inducessero a riconoscere il proprio eccesso di ego come un errore e accettare il ritorno in una dimensione collettiva della vita. 

Dopo altri vari scontri con il regime a causa della pubblicazione di suoi capolavori come “Solaris”, che viene tagliato e modificato senza l’approvazione del regista; o “Lo specchio”, il film più personale ed ermetico del regista che scatena ancora di più l'ostilità del regime sovietico nei suoi confronti a tal punto che porta Mosca a vietare al film la partecipazione a qualsiasi festival e addirittura al regista di girare altre pellicole, inizia un rapporto con il Belpaese che lo porterà, nel 1982, a lasciare per sempre l'Unione Sovietica e a iniziare, come Aleksandr Solzenicyn e Mstislav Rostropovic, una vita da esule in giro fra Stati Uniti ed Europa. 

Tarkovskij in Italia trova il sostegno del comune di Firenze, che gli regala un appartamento, e l'amicizia di Tonino Guerra, con il quale ha avviato il progetto di 'Nostalghia', film che esce nel 1983, interamente girato nella campagna senese, con un omaggio a Piero Della Francesca e alla sua 'Madonna del Parto'.

Muore a Parigi nel 1986.

Egli fu definito poeta del cinema, un regista capace di dare definizione e concretezza all’astrattezza pura del sentimento elegiaco. Egli quindi vuole riassumere attraverso il cinema d’arte una visione poetica dell’esistenza umana nel contesto politico e sociale del suo tempo, dove le libertà di espressione artistica sono ostacolate.

E’ nel film Nostalghia del 1983, e in particolare grazie al monologo della figura illuminista del ‘pazzo’ Domenico (che arrampicatosi sulla statua del Marc’Aurelio al Campidoglio proclama la sua verità al mondo), che Tarkovskij esalta i suoi ideali.
Il pazzo è reso tale dalla consapevolezza del fatto che i suoi ideali non possano divenire realtà, egli non sa più vivere nel desiderio di esprimere il suo pensiero equi ricerca la libertà e un mondo dove la società sia unita nella maniera più semplice, semplice come la natura, e dove la società torni unita nel modo di rispettare gli ideali altrui e di non intaccare la purezza dello spirito artistico e individuale dell’uomo. 
Andrej pensa che ciò che conta siano le piccole cose, i nostri piccoli e grandi propositi, e che l’attaccamento ai grandi piani che riguardano l’umanità, siano inutili. Quindi fa un’aperta denuncia all’idiozia umana, alla perdita di spiritualità, all’indifferenza e all’inclinazione alla rovina, al ripudio dei veri maestri e alla perdità di valori interiori. 
Le parole di Domenico ci fanno riflettere su come la rassegnazione, la rinuncia a qualsiasi possibilità di cambiamento dietro il rassicurante conforto del “tutto è inutile”, il coprire i cuori di ombra non lasciando nessun spiraglio di luce, siano, tutti questi, tra i mali peggiori dell’umanità.

Facendo un gigantesco passo nei secoli, esiste uno scrittore del trecento come Dante Alighieri che, sebbene egli avesse trovato la sua retta via nel cammino spirituale verso Dio e un grande maestro come Virgilio, si ritrovava dapprima in una condizione di smarrimento e di depressione paragonabile a quella di Andrej, dove la sua condizione è soltanto di poco peggiore a quella della morte spirituale (tant’è amara che poco è più morte), la stessa morte spirituale di Tarkoskij. 
Anche Dante parla a nome dell’umanità sofferente e "ammalata", e lo fa utilizzando l’aggettivo ‘nostra’ nel verso “Nel mezzo del cammin di nostra vita’. 
Il poeta nel mezzo del cammin di nostra vita all'improvviso prende consapevolezza della condizione negativa in cui è entrato quasi inconsapevolmente, e che è anche la condizione di corruzione dell'intera umanità. Il motivo personale e quello universale continuano costantemente a sovrapporsi.

Eppure, nel ventunesimo secolo, a me che scrivo, non sembra così distante questa sensazione di insicurezza, ciò che è stato un topic letterario attraverso i secoli, è la mia realtà oggi. 

Anche noi giovani, nel nostro particolare periodo storico, ci sentiamo persi, impauriti dal nostro futuro.
Ciò che dobbiamo fare è ricercare una guida: e con questo non mi riferisco per forza ad una persona fisica, se questa c'è, meglio ancora, ma mi riferisco a una guida della nostra anima, che possa essere un obiettivo o una passione, o il nostro proprio senso della vita. 

Non bisogna credere mai nel ‘tutto è inutile’ dell’epoca di Tarkovskij, bisogna invece allargare i propri desideri e non permettere a nessuno di averne il predominio e di sottomettere il nostro spirito artistico e individuale. 
Dobbiamo potere gridare di volere costruire le piramidi. Poi se questo sarà impossibile, non conta. Non bisogna permettere a nessuno di avere la meglio sul nostro ego, né questo deve essere corrotto dalle regole conformiste della realtà in cui oggi viviamo. 
E’ solo se ognuno segue i propri sentimenti con coerenza che si può vivere nel rispetto, e senza la paura di avere un grande maestro che ci stia sempre accanto, per dirci cosa è meglio fare. 
Non esiste il 'non ci possiamo fare niente'. Ci possiamo fare tutti, dipende soltanto da noi.

Ruggero Pane



lunedì 19 maggio 2014 0 commenti

ARTE

Quando si parla d’arte, spesso se ne parla a sproposito e solo perché la parola stessa “arte” pare dia l'illusione di riempire la bocca di significato, o meglio sarebbe dire di significati, senza imporre con questo, a chi la pronuncia, l’obbligo d’aggiungere altro per affermare la propria profonda conoscenza in merito all'argomento. La parola "arte" pare conferire, a chi se ne impadronisce durante un discorso, un innato alone di conoscenza suprema, che immediatamente schiaccia l’ascoltatore al debole ruolo di suddito ignorante. Già, perché l’arte è un argomento universale che racchiude una serie di sfaccettature talmente sottili da rendere edotto chiunque sia in possesso anche solo del significato etimologico della parola stessa. C’è poi chi addirittura ne enfatizza l’utilizzo, ponendo l'obbligo morale nell'impiego dell'iniziale con la lettera maiuscola, semplicemente per appesantire ancor più il distacco che esiste tra la comune accezione di arte (intesa ovviamente come volgare e di poco conto) e l’Arte, maiuscola appunto, riservata a pochi eletti (eletti da chi, poi?) che si arrogano in questo modo il diritto di celare la vera Conoscenza, anche questa maiuscola ovviamente. Ma l’arte è quindi una società segreta? Oppure è accessibile a chiunque mostri una sensibilità tale da riconoscere cosa tocchi davvero il profondo dell’anima? E’ necessario sminuire i semplici, ma forse genuini, sentimenti del prossimo solo perché si sono trascorse ore e ore di studio su un dato argomento? Certo è innegabile che la conoscenza aiuti ad approfondire, ma questo ha senso solo se quest'ultima può essere condivisa senza alcuna arroganza, poiché il significato profondo di un’opera non è nascosto tra le pagine di un libro, o tra le righe di una critica, ma nel brivido che corre lungo la schiena di chi usufruisce dell’arte come puro godimento. L’arte non è un concetto, ma la risultante di più sentimenti ed emozioni, suscitate da una data interpretazione che non può essere univoca, poiché questo ridurrebbe l’emozione che ne deriva, o, se non altro, ridurrebbe la sfera d’utenza che l'arte ha invece il compito di allargare il più possibile. L’arte può essere comunicata, studiata, spiegata, ma non per questo compresa realmente. L’arte è un vulcano in eruzione racchiuso all’interno della sensibilità umana. L’eccellenza dell’artista sta nella capacità di farlo esplodere, attraverso lacrime, risate, riflessioni, ricordi, danze, canti e qualsiasi forma di espressione il corpo sia in grado di produrre. Gli artisti veri, gli artigiani dell’arte, sono quelli che lasciano nascere le proprie opere, poichè spinti dal puro e semplice bisogno di comunicare qualcosa al prossimo. Non si parla necessariamente di qualcosa di nuovo. La novità è cosa antica e ormai è difficile da inventare, possibile è però reinventare, rileggere sotto una luce diversa ciò che è già impresso nella storia. L’arte è divertimento, inteso nel senso più ampio possibile. L’arte non è seriosa, semmai seria, quando il messaggio richiede attenzione e rispetto da parte di chi ne fruisce. L’arte è inconsapevole d’essere se stessa, quindi inutile cercarla laddove l’ego dei presunti artisti occupa tutto lo spazio dedicato all’opera in sè. In quanto fruitori ultimi dell’arte, siamo a rappresentare chi come noi è stanco d’essere preso in giro. Stanco di sentirsi additare come ignorante di fronte alla subdola trasformazione dell’arte in mero linguaggio televisivo. L’arte non è spazzatura. Non nell’accezione televisiva del termine, almeno. L’arte educa, non diseduca, anche con messaggi sottili e non sempre immediatamente comprensibili. L’arte può essere violenta e può rendere arte la violenza stessa (a patto che questa si manifesti esclusivamente come “rappresentazione” della realtà). L’uomo è un essere morboso, l’arte non deve tendere ad una impropria fomentazione di questa caratteristica, poiché essa non produce alcuna crescita morale od intellettuale. L’arte può essere qualunque cosa, purchè produca sentimenti più profondi della curiosità fine a se stessa. Il vero artista deve potersi specchiare nelle proprie opere ed ha l'obbligo morale di confrontarsi con esse prima di proporle al pubblico. Il vero artista deve mettere in discussione il proprio operato, rivedendolo in chiave cosciente. Egli è padrone e responsabile del messaggio che divulga. Non può, come accade spesso, fingere di non sapere quali possibili chiavi di lettura porterà con sè il proprio operato del pubblico. L’arte può essere audace, provocante, ma non deve essere mai volgare. L’ostentazione della volgarità non è arte, ma provocazione. La provocazione per essere arte non può basarsi esclusivamente sull'effetto scioccante di un dato argomento, tanto meno può calcare la mano su aspetti volutamente scioccanti... L’arte non è qualunque cosa. Ma qualunque cosa può diventare arte. Gli artisti è bene che non si autodefiniscano tali. Chi produce arte non fa altro che esprimere un bisogno, di conseguenza risulterebbe improprio, per chi si adopera in questo senso, definire un egoistico bisogno "arte". Il pubblico ha però la possibilità, attraverso un giudizio sincero e non viziato da forme pubblicitarie (positive o negative), di esprimere la propria opinione in merito ad una data opera. Quanto più sarà sincero il giudizio conferito, tanto più l'opera si avvicinerà al concetto stesso di arte. Non ha infatti alcuna importanza il valore del giudizio. Conta soltanto la spontaneità dello stesso, la necessità, questa volta da parte del pubblico, di esprimere, in risposta al bisogno dell'artista, un parere, che colmi il bisogno di ambo le parti. La pretesa del giudizio e la produzione artistica volta alla sola ricerca di un confronto con il pubblico, sminuisce l'opera e il suo autore, che snatura in questo modo il proprio naturale bisogno di comunicare, trasformandolo in un anonimo gioco delle parti, in cui il responso è perciò viziato dall'assenza di una reale necessità all'arte e dalla conseguente assenza di obiettività, non proposta e quindi non ricercata nell'utente finale. L'arte può avere un prezzo ed è corretto che l'artista goda l'altro lato dei benefici che il proprio bisogno produce sul pubblico. L'artigiano dell'arte deve poter commercializzare il proprio operato senza per questo renderlo seriale, mantenendo perciò il concetto fondamentale di bisogno che deve comunque perpetrarsi attraverso ogni sua singola espressione. L'arte del disimpegno può dirsi tale nel momento in cui chi la produce non ha la pretesa di innalzarne i frutti ad arte dell'impegno. Il pubblico deve imparare ad interpretare, capire e crescere attraverso l'evoluzione dell'arte stessa, affinché, dall'altra parte, l'artista possa evolvere il proprio pensiero e il frutto del proprio operato. Chi siamo noi per dire tutto questo? Siamo una parte del pubblico. Quella parte spesso nascosta agli occhi dei più perché ancora capace di guardare più a fondo nelle cose. Siamo quella parte che non si accontenta, che esige le emozioni che l’arte può regalare.
Chiediamo sempre di più a chi ha il potere di elargire conoscenza. Siamo affamati d’arte e d’emozione perché è anche di questo che è piena l’esistenza. Non basta raccontarci una favola, magari sempre la solita, per mandarci a letto contenti! Sì, siamo la parte capricciosa e spesso insostenibile del pubblico ma, a nostra difesa, posso dire che mai l’artista si sentirà tradito dal nostro giudizio, poiché, buono o cattivo che esso sia, proverrà sempre e solo dal profondo della nostra anima. Ciò che abbiamo detto non ha la pretesa di essere impresso nel fuoco. Né tanto meno ci riteniamo in grado di decidere cosa sia buono e cosa no. Stiamo cercando di ricordare a chi ci ascolta un messaggio molto semplice, ma che troppo spesso finisce nel dimenticatoio: L’arte, è molto di più di quello a cui ci stiamo abituando. Non addormentiamoci sul materasso costruito sul nulla che i falsi artisti ci stanno costruendo per plagiare il nostro spirito critico. Non lasciamo morire l’arte nell’apatia generale, che troppo spesso, regna sovrana nelle nostre vite.
giovedì 20 giugno 2013 0 commenti

Buonanotte

Premetto di NON avere scritto io questo testo, l'ho trovato su Facebook e mi è piaciuto così tanto che per non "perderlo" l'ho voluto trascrivere qui. Complimenti all'autore. 

Buonanotte a chi ogni tanto sposta i paletti dei propri limiti.
E prova a spingersi oltre.
Un solo passo a tentoni.
E se il terreno tiene, una spinta ancora.
Per prendere il volo.
Per andare al di là delle nostre paure.
Per provare a noi stessi che ce la possiamo fare.
Solo per qualche momento.
La base è sicura.
Ma l'infinito ci attira.
E allora buonanotte a chi oltrepassa i propri confini.
Per osservare un istante ciò che ci sembrava imprendibile.
Per godere dell'impensabile.
Per sfiorare un sogno.
E poi tornare indietro.
Ma con più consapevolezza.
Quella di sapere che non ci sono barriere alla nostra volontà.
giovedì 9 maggio 2013 0 commenti

Maggio


Io penso sia troppo questo silenzio,
che quando arriva, Maggio contempla 
per non scoppiare in chissà cosa;

E' strano ma è così, è constatato, è vissuto
questo mese porta con se il mistero,
è un punto e virgola;

Maggio è un punto e virgola:
conclude e avvia allo stesso tempo;
è una nespola aspra che mangi lo stesso
perché ti fa bene;

Io non so perché,
ma in questo mi soffermo 
e penso, accadono sempre cose nuove;

Maggio è il mese della mia nascita
è un violento passo indietro,
mi fa ricordare, mi fa sorridere;

Mi fa pensare cosa sono stato,
per decidere, a volte, cosa sarò;

Immaginare cosa mi aspetta,
avere paura,
il futuro;

Eppure Lei, La sento sempre nell'aria,
era una parte di me,
a Maggio mi hai lasciato;

Ed ecco i sorrisi, ed ecco la malinconia;

E per me è vita e morte,
inizio e fine,
passione e contemplazione;

Potrei vivere senza tempo,
senza giorni, senza mesi,
ma Maggio lo sento;

ed io lo aspetto sempre,
ogni anno;

E anche lui, ne sono sicuro,
sta aspettando qualcosa da me.

martedì 27 novembre 2012 0 commenti

Provo

Provo
Come libera una colomba
vola leggera
nel chiaro cielo
senza paure
tranquilla,
Da mille cuscini di ogni colore
provo ad andare anche io.

Se da una piuma ecco
un cuscino,
se da una goccia
ecco una pioggia,

si saprà soltanto
trascorrendo tempo
a provare quel che c'è
da provare
 
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